La vicenda trae origine da una richiesta presentata nel 2017 dalla sorella di C.G. al giudice tutelare, per l’istituzione dell’amministrazione di sostegno, motivata da una condotta “prodigale” del fratello, che viveva in modo austero e donava il proprio denaro. Nel corso degli anni, nonostante diverse perizie psicologiche avessero escluso patologie psichiatriche gravi, i poteri dell’amministratore sono stati estesi fino a comprendere ogni aspetto della vita personale e patrimoniale dell’interessato, incluso il potere di decidere in merito alla sua collocazione abitativa.
Nel 2020, su richiesta dell’amministratore, il giudice ha autorizzato il ricovero in RSA, anche con l’uso della forza pubblica. Da quel momento, C.G. ha visto drasticamente ridursi la sua libertà personale e la possibilità di mantenere contatti con l’esterno, compresi i familiari.
La Corte EDU ha esaminato il caso alla luce dell’articolo 8 della Convenzione, che garantisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare. Pur riconoscendo che le misure adottate erano formalmente previste dalla legge e tese a uno scopo legittimo (la protezione della salute e del benessere di C.G.), la Corte ha ritenuto che esse non fossero proporzionate alla situazione concreta dell’interessato.
In particolare, ha osservato che:
La Corte ha espresso preoccupazione per un utilizzo distorto dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, trasformato, di fatto, in uno strumento di contenimento più che di supporto. Ha rilevato come, in questo caso, lo strumento abbia finito per svolgere funzioni proprie del trattamento sanitario obbligatorio (TSO), senza però le garanzie procedurali previste dalla legge per quest’ultimo.
Ha inoltre sottolineato la carenza di un controllo effettivo da parte del giudice tutelare, che ha fatto affidamento quasi esclusivamente sulle relazioni dell’amministratore, senza ascoltare direttamente l’interessato per lunghi periodi.
Determinante nella vicenda è stato l’intervento del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, che ha più volte sollecitato la magistratura a riconsiderare la situazione di C.G., evidenziando le criticità della sua permanenza forzata in RSA e l’assenza di alternative reali, come l’assistenza domiciliare. Anche il Comitato ONU per i diritti delle persone con disabilità (CDPH) e il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (CPT) hanno formulato raccomandazioni generali che la sentenza richiama.
Con questa sentenza, la Corte EDU non solo condanna l’Italia per violazione dell’articolo 8 CEDU, ma invita implicitamente a una profonda riflessione sull’uso eccessivamente invasivo dell’amministrazione di sostegno. La finalità dello strumento non dovrebbe mai essere quella di esautorare l’interessato, ma piuttosto quella di accompagnarlo nelle decisioni difficili, rispettandone volontà e preferenze.
Un messaggio chiaro anche per gli operatori del diritto: attenzione a non confondere la protezione con la sostituzione. Ogni situazione merita valutazioni individualizzate e un controllo effettivo, perché, come dimostra questo caso, anche una tutela può trasformarsi in una forma silenziosa di detenzione.
Chiedersi se le misure adottate siano davvero necessarie, proporzionate e temporanee non è solo legittimo: è doveroso.
La giurisprudenza europea offre ora un appiglio in più per chi vuole far valere i diritti di una persona fragile, ma ancora capace di desiderare, scegliere, vivere.